Napoleone conquista Trieste

Nel tempo, esso stesso assai breve, di ciò che si definisce convenzionalmente l’età napoleonica (un po’ meno di venti anni tra la prima campagna in Italia nella primavera del 1796 e l’ultima, leggendaria sconfitta a Waterloo il 18 giugno 1815), il periodo nel quale si può dire che Trieste appartenga in forma diretta a questa età è ancor più breve: cinque anni e cinque mesi, sommando con qualche generosità. Le tre circostanze in cui il rapporto con la storia napoleonica non è solo quello generale e obbligato al quale chiunque e ovunque sia vissuto in quei venti anni non ha potuto sottrarsi, ma è una relazione stretta, di occupazione, di dominio e fatalmente anche di integrazione. Certo si tratta di un minuscolo fazzoletto di anni, un grumo minuscolo di giorni che impallidisce, a Trieste, di fronte ai cinque secoli della presenza asburgica: un tempo lungo nel quale un impero ben altrimenti effimero di quello nei quali si bruciano rapidamente le ambizioni di un irrequieto corso di modeste ascendenze familiari imprime di sé, della forza maestosa della propria durata la vita della città. Ma come per la memoria individuale, nella quale brevi attimi si fissano con una tenacia che il lungo trascorrere di un’esistenza non riesce a cancellare, così nella memoria collettiva, nella memoria cittadina, gli anni piuttosto che pesarli, conviene accertare e accettare quanto essi si siano mantenuti vigorosi nel ricordo.

Esiste, insomma, un diritto del tempo breve, quello che ci assale nel riepilogo costante che ciascuno di noi fa degli anni trascorsi, quello che rivendichiamo appassionatamente quando pensiamo che le nostre esistenze seppur rapide non possono per questo venir condannate all’insignificanza dell’oblio, quello che chiedono momenti della storia che per la loro intensità non si adattano a venir ridotti a trascurabili parentesi di epoche più longeve.

Per Trieste l’età napoleonica si presenta come un esemplare caso di diritti del tempo breve, dove ciò che accade non va giudicato solo per ciò che concretamente accade o per ciò che visibilmente rimane, ma per la capacità di rottura, cioè di mutamento, che un tempo breve normalmente porta con sé e per le tracce, disperse, spesso confuse, che di quella rottura esso lascia alle età successive. Ecco, dunque, che ad una città dove la tradizione è diventata carattere identitario, dove la memoria del passato si è fatta custodia minuziosa del proprio carattere collettivo, il tempo breve degli anni napoleonici regala, in primo luogo, la rapidità che è nella loro stessa natura. Il giovane generale che conquista Trieste nel marzo del 1797 è già quell’homme pressé, quell’uomo frettoloso di cui scrive Paul Morand in un memorabile ritratto che fa di Napoleone l’icona profetica di un secolo, il Novecento, dove tutti e tutto sembrano incalzati da una incomprensibile fretta, una velocità inquieta che non a caso ha visto questo “secolo breve” nascere in ritardo – cento anni fa allo scoppiare della prima guerra mondiale – e morire anticipatamente, nel 1989, tra crolli di muri e di utopie.

Per arrivare a Trieste nella primavera del 1797, Bonaparte era, effettivamente, andato di fretta. Dopo aver scosso un esercito che i suoi predecessori avevano tenuto per mesi, per anni, abbarbicato sulle Alpi senza un motivo, senza un disegno, lo aveva condotto “nelle più fertili pianure d’Europa”, ottenendo vittorie apparse subito miracolose ai contemporanei, conquistando città dai nomi pieni di fascino: Milano, Bologna, Mantova, Venezia.

Venezia – la conquista più recente – si era, però, rivelata una matassa più difficile da sbrogliare delle altre. L’estensione dei suoi domini che, per quanto estremamente ridotti rispetto alla gloria dei secoli precedenti, garantivano pur sempre il controllo dell’Adriatico e uno sguardo verso il Levante mediterraneo, il richiamo della sua tradizione di libertà, la posizione nel quadro dell’intera penisola italiana, la rendevano un oggetto assai prezioso, ma anche difficile da maneggiare. Venezia, peraltro, così come appariva un suggestivo cuneo rivolto contro l’Impero asburgico – un boulevard attraverso il quale si poteva raggiungere il cuore dell’Impero asburgico, avrebbe scritto Talleyrand in quei mesi – poteva anche diventare il pegno di un’intesa con Vienna in grado di concludere una campagna sicuramente trionfante, ma il cui risultato finale rimaneva ancora, agli inizi della primavera del 1797, incerto. Cosa fare di Venezia? Non si poteva esitare troppo a lungo, occorreva agire rapidamente traendo il massimo vantaggio da una situazione militare favorevole, che poteva, tuttavia, in poco tempo rovesciarsi nel proprio contrario. Di questa rapidità, di questa fretta che impronta di sé le trattative che conducono ai preliminari di Leoben e poi alla pace di Campoformio, è figlia anche l’occupazione di Trieste da parte delle truppe francesi il 23 marzo 1797.

Rapida è anche la visita che Bonaparte fa alla città qualche giorno più tardi, il 4 aprile, frettoloso omaggio, o se si preferisce, frettolosa deviazione da un complicato puzzle militare e diplomatico alle cui tessere egli ha affidato una soddisfacente conclusione della sua prima grande avventura. Trieste, tuttavia, sembra impermeabile a questa agitazione che la tocca e minaccia, ora, di travolgerla. La città, a differenza del mondo che la circonda e degli uomini che ad esso appartengono, non ha fretta e riposa, nella primavera del 1797, su una storia recente che l’ha stabilizzata, rassicurata. Dopo i secoli non particolarmente rilevanti che seguono la sua dedizione agli Asburgo, durante i quali essa soffre, indubbiamente, la potenza vicina e non ancora offuscata della Serenissima, Trieste conosce, nel Settecento, uno dei momenti più felici della sua storia urbana.

Sono 30mila i triestini che accolgono Bonaparte, cinque volte la cifra degli abitanti che la città possedeva solo mezzo secolo prima. Una crescita assai significativa, in linea con i casi più ragguardevoli dell’Europa settecentesca, che ci parla, appunto, di uno sviluppo materiale della città che ne definisce anche un ruolo economico e, dunque, un’identità.

La crescita della potenza asburgica soprattutto all’indomani della conclusione delle guerre di successione e della pace di Aquisgrana fa di Trieste – come è noto – il porto di un impero in espansione, il crocevia, per quella che si impone ormai come una delle grandi potenze europee, tra il cuore continentale dei suoi tradizionali domini e le nuove ambizioni verso il Levante, verso il Mediterraneo. Porto franco, Trieste non solo vede questo suo ruolo accompagnarsi ad uno spettacolare rinnovamento urbanistico che le regala quei caratteri architettonici che ancora oggi ne distinguono la peculiare fisionomia, ma scopre – sulla scia di quanto era accaduto per Venezia di cui diventa ora la immediata concorrente – una dimensione cosmopolita, una vita colorata di scambi mercantili che fa da seducente contrasto con il nitore degli edifici di impronta asburgica.

«Il y a à Trieste une chose bien intéressante» scrive il generale Desaix – il futuro, giovane eroe della battaglia di Marengo – entrando in città. «C’est tous les costumes différents qui s’y trouvent par les gens de toute nation et de toute espéce en route» prosegue, accatastando in poche pagine le immagini di mercanti ungheresi vestiti da Ussari, con una giacchetta blu, i pantaloni e gli stivali bassi, di tedeschi che girano su enormi carrozze, e poi di levantini di ogni specie (Greci, Turchi, dell’Asia Minore e dell’Africa), ciascuno con i suoi abiti, grandi pantaloni eccessivamente larghi, cinture rosse e calze bianche, tra cui spiccano quelli di Smirne con delle larghe tuniche che arrivano fino ai talloni, e i Turchi che fumano di continuo con delle lunghe pipe e se ne stanno seduti sui loro banchi, con le gambe incrociate ripetendo “Allah, Allah!”.

E non è forse, un caso che il primo accenno a Trieste che rinveniamo nelle lettere scritte da Bonaparte nel corso della campagna d’Italia appartenga al momento in cui appare ormai chiaro che l’indirizzo politico della sua impresa militare ha assunto obiettivi assai diversi da quelli che il governo di Parigi aveva immaginato. L’occupazione di Trieste, immaginata in termini fin troppo minacciosi che sembrano dar ragione a chi, in Italia, vede in quei mesi i francesi non come liberatori, ma come implacabili conquistatori – “Je marcherai sur Vienne par le chemin de Trieste, et alors nous aurons le temps de retirer les immenses ressources que contient cette place” – appartiene ad un disegno assai più vasto che guarda già ad un nuovo ruolo della Francia nel Mediterraneo orientale e vede nel controllo della penisola italiana e di alcuni suoi nodi strategici (e Trieste si impone, senza dubbio, tra questi) la condizione indispensabile di realizzazione.

Il ritiro delle truppe francesi dalla città, dopo appena due mesi, non contraddice questo disegno, ma in certo modo lo pospone nel tempo. Naturale conseguenza degli accordi di Campoformio quella decisione fotografa, per così dire, lo stato dei rapporti di forza tra la Francia rivoluzionaria e l’Austria.

Ne accerta l’identica, e dunque conflittuale volontà di ottenere il controllo della penisola italiana (o almeno della sua parte centro-settentrionale), e l’identica esigenza di fare della penisola, così assoggettata, la premessa di una dichiarata politica mediterranea, e, quindi, non può che rinviare al futuro, ad un eventuale mutamento dei rapporti di forza, a una diversa sistemazione delle aree di influenza che, per il momento, attribuiscono la Lombardia e in fondo anche il Piemonte alla sfera francese e tutto il Veneto e i limiti orientali all’Austria.

Se Campoformio – come molti osservano allora – non è altro che una tregua, non si deve però immaginare che quei due mesi tra il marzo e il maggio 1797 siano per Trieste solo un fastidioso intervallo nella sua lunga storia. Per un breve attimo quel giovane generale che dopo una leggendaria campagna militare si è affacciato sulle Alpi orientali giungendo quasi a minacciare Vienna, sembra capace di portare in una città, che la saggia politica asburgica ha fatto prosperare e ha tenuto fino a quel momento lontana dalle tempeste della Rivoluzione, un profumo attraente di novità.

Molti, la maggior parte degli abitanti, mugugnano per la paura di saccheggi ed esazioni, ma soprattutto per il timore che una invasione di uomini e di idee estranei al tessuto tradizionale della città possa produrre quello stesso effetto contagioso che ovunque in Europa, all’apparire dei soldati della Rivoluzione, ha prodotto, un sovvertimento dell’ordine sociale. Non che Trieste si trasformi allora in una città giacobina, ma nel proporsi alla vita pubblica di nuove, esigue certo, forme associative e di nuove parole d’ordine, sembra, in quei due mesi, trovare continuità una tradizione di riformismo illuminista che in città aveva contato non poco – si pensi alla figura di Antonio Giuliani – e che si era bruscamente interrotta con l’Ottantanove francese.

Ciò che nelle poche settimane della presenza francese a Trieste era apparso solo un improvviso, episodico fiorire di iniziative filorivoluzionarie, favorite spesso dall’occupante, mostrano, al contrario, una capacità di durare anche all’indomani del ritorno di casa d’Austria, di inserirsi, in maniera silenziosa ma significativa, nel tessuto della sociabilità politica cittadina. E questo mostra anche che un raccordo si, in qualche modo operato – in quel breve tratto di tempo – tra i fermenti del riformismo settecentesco e le impazienze della Rivoluzione. Così, quando il 1 agosto 1800, scortata dall’ammiraglio Nelson, giunge a Trieste Maria Carolina d’Asburgo regina di Napoli, nella città che la accoglie con l’omaggio dovuto ad una sovrana che è pure la zia dell’imperatore, si avverte qualche inattesa voce fuori dal coro. A ricordare a Maria Carolina il sangue versato nella repressione della Repubblica napoletana, il sacrificio di quelli che la tradizione patriottica cominciò allora a salutare come i primi martiri del Risorgimento italiano (e tra di essi vi erano due giovani triestini, Domenico e Antonio Piatti), una piccola cassa da morto nera, macchiata di rosso sangue, spinta da una vela e sulla quale spiccava il nome Caracciolo, ondeggiò a lungo – raccontano le memorie cittadine – nelle acque del porto.

È nelle presenti circostanze pericolosa – annotava in quegli stessi giorni il direttore della polizia Pittoni a proposito della comunità ebraica – e deve essere ed è sopravvegliata scrupolosamente. La Libertà e l’Uguaglianza francese ha ferito la loro ambizione, il veder i loro confratelli e parenti in Italia prender parte del Governo, esser elevati a luminose cariche sì civili che militari li hanno fatti contrarre un genio democratico”. Il funzionario imperiale non intendeva, certo, con queste parole rivolgersi al patriziato cittadino fortemente legato alla proprietà terriera che conservava – tanto più dopo la folata rivoluzionaria dell’occupazione francese – un incrollabile attaccamento alla corona d’Austria. Parlando della comunità ebraica egli intendeva, più estesamente, riferirsi al composito mondo della società mercantile triestina all’interno della quale prendeva sempre più corpo il “genio democratico”, un preciso orientamento in senso filorivoluzionario e filofrancese.

Sotto questo aspetto, lo sviluppo del traffico conosciuto dal porto triestino all’indomani del 1797, grazie alle nuove, vantaggiose condizioni derivanti dalla pace di Campoformio e al conseguente indebolimento della posizione di Venezia, finiva con l’agire in senso, per così dire, opposto a quello che il governo asburgico poteva legittimamente augurarsi.

Nella ripresa delle attività economiche la circolazione di notizie, idee, persone, si faceva più intensa e pericolosa. Quell’incontro di ambienti e comunità diverse, che la cultura settecentesca aveva salutato come carattere modernamente cosmopolita della città, diventa qualcosa di meglio determinato. È il movimento democratico che si presenta ora come la forma politica dell’universalismo rivoluzionario a cui gli avvenimenti di Francia e con essi le imprese militari di Napoleone Bonaparte fanno appello. Così, mentre la città accoglie, da un lato, l’emigrazione aristocratica che fugge dalla Rivoluzione, dall’altro lato essa vede crescere al proprio interno l’insofferenza per il regime tollerante ma asfittico che fa capo a Vienna.

L’inclusione nell’impero delle antiche province dell’Istria veneta, prevista a Campoformio, accentua e precisa meglio il carattere di questa nuova condizione della città. Non solo, infatti, nel momento in cui dopo secoli entrano in contatto due realtà – l’Istria veneta e Trieste – rimaste separate benché contigue, la città assorbe inevitabilmente i lasciti di ambienti politico-culturali formatisi e vissuti per lungo tempo nella battaglia anticonservatrice condotta in opposizione al regime aristocratico della Serenissima. Essa assorbe, soprattutto, sollecitazioni – a voler usare un’espressione un po’ sbrigativa – di italianità, radicate nel tessuto storico e sociale di quei luoghi a cui quella fase storica – si pensi ai Comizi di Lione e alla nascita della Repubblica italiana sotto il diretto impulso di Bonaparte – offre l’accoglienza e la tutela del continuum politico Rivoluzione-Consolato napoleonico.

Si assiste insomma, tra il 1797 e il 1805, ad un riorientamento della cultura politica triestina da due prospettive destinate entrambe ad incidere profondamente nel tempo lungo della storia cittadina. Da un lato si verifica l’acquisizione di un lessico democratico moderno, erede diretto della politicizzazione rivoluzionaria, mentre, dall’altro, la coscienza di una identità italiana quale risultato dell’appartenenza ai processi storici vissutisi nella penisola. E varrebbe la pena di aggiungere che in questo modo nasce allora un legame democrazia-italianità che rappresenta – anche in questo caso nel tempo lungo – un ancoraggio solido nei momenti non sempre lineari e facili della storia della città. Rispetto a questi processi di lunghissima durata sembra perdere peso persino la costruzione di quegli edifici – il Teatro, la Borsa – realizzati in quegli anni e che ancora oggi, a distanza di due secoli, paiono capaci di sfidare il mutamento effimero dei regimi politici e parlare della stabilità di un regime – quello asburgico – in grado allora di regalare a Trieste una delle stagioni più fertili e innovatrici della sua forma urbana.

Quando, nel novembre 1805, le truppe guidate dal generale Masséna, al termine di una nuova, spettacolare impresa bellica destinata a concludersi qualche settimana più tardi sotto “il sole di Austerlitz”, entrano per la seconda volta a Trieste, la situazione è mutata in maniera significativa rispetto a otto anni prima. In città c’è, per così dire, più voglia di Francia e le dimensioni del tracollo militare dell’Impero asburgico accrescono le attese che ora si indirizzano non già (si sarebbe tentati di dire non più) a quanto avviene al di là delle Alpi, ma al giovane Regno d’Italia. È questa fresca creatura della ingegneria politica dell’Impero napoleonico che fa da potente attrattore e che ora, con i suoi confini estesi fino a Monfalcone, lambisce Trieste e sollecita nei suoi abitanti direttrici, in parte antiche in parte, in realtà, nuovissime, di italianità.

Neppure il secondo ritorno nell’ambito dell’impero, dopo la conclusione della pace di Presburgo, è, d’altronde, paragonabile al primo. Circondata a tenaglia da territori del Regno italico, Trieste – come raccontano i testimoni dell’epoca – diventa dai primi mesi del 1806 un “cenacolo di agenti francesi” pronti a mantenere alta la temperatura rivoluzionaria di una città che si prepara a vivere una pagina alquanto difficoltosa della sua storia.

L’adozione del blocco continentale, imposto da Napoleone già all’indomani dell’annientamento della Prussia nella guerra della Quarta coalizione (dicembre 1806), e rafforzato all’indomani dell’intesa raggiunta a Tilsit (giugno 1807) con lo zar di Russia, Alessandro, agisce pesantemente sulle attività del porto e, dunque, sulla vita economica dell’intera città.

Da un lato, infatti, il divieto di sbarco delle merci inglesi priva uno scalo in continua crescita dal momento della nascita del porto franco di quei prodotti coloniali che attraverso di esso raggiungevano i mercati dell’Europa continentale. Dall’altro lo stesso Impero asburgico, visibilmente fiaccato dalla disastrosa sconfitta di Austerlitz a cui aveva fatto seguito l’ancor più disastrosa pace di Presburgo, ad inoltrarsi in una grave fase di crisi economica (di cui sono testimonianze le ripetute svalutazioni monetarie) che affievolisce sensibilmente la domanda interna delle merci in transito da Trieste.

In definitiva, le guerre ripetute, le frontiere che si alzano in Europa con sorprendente rapidità a misura delle conquiste del nuovo, ambizioso Impero napoleonico, o che variano con altrettanta rapidità e seguendo la medesima ambizione, non sono certo la ricetta migliore per un’economia come quella triestina alla quale sarebbero, invece, necessari spazi liberi, aperti, nella cornice dei quali praticare la sua antica vocazione mercantile, la sua propensione allo scambio che non è mai solo di merci, ma di idee e di esperienze umane.

Nello stesso momento il Regno d’Italia che Napoleone, dopo averne cinto – come noto – la corona, affida poi al governo vicereale di Eugenio di Beauharnais, riceve dalle stesse vicende (Austerlitz, Presburgo) un forte impulso e una intrigante parvenza di durata nel sempre mutevole scacchiere napoleonico. Nei confronti della città e del suo ormai assai ridotto hinterland esso, quindi, non tarda a diventare – lo si è accennato – un significativo attrattore tanto di progetti politici quanto di prospettive materiali: una convincente alternativa, insomma, nel declino apparentemente irreversibile dell’Impero asburgico.

L’ennesima, rovinosa sconfitta che questo impero conosce con la battaglia di Wagram, l’occupazione di Vienna e la mortificante pace di Schönbrunn, rafforza, nell’estate del 1809, la percezione della fine di un mondo. L’ingresso a Trieste il 17 maggio 1809 delle truppe guidate dal viceré Eugenio, premessa dell’incorporazione nella carta politica napoleonica che avverrà solo nell’ottobre successivo alla conclusione della pace, sorprende, dunque, la città in un evidente “stato di depressione e di avvilimento” secondo l’espressione che ci consegna un testimone di quei giorni. “Al mormorio delle strade nella città prodotto dalla numerosa, attiva popolazione e dall’andirivieni dei carri con merci d’ogni genere, è succeduto un cupo silenzio e una mesta inerzia”, prosegue il cronista locale pronto ad estendere questo declino a tutto il tempo – tra il 1809 e il 1814 – in cui Trieste sarà effettivamente, in maniera cioè non provvisoria ma stabile (della provvisoria stabilità, ovviamente, di cui si diceva all’inizio a proposito delle frettolose creature politiche di Bonaparte), napoleonica.

Il bilancio di questi pochi anni napoleonici non deve, però, ridursi alle melanconiche considerazioni di un evidente nostalgico dell’aquila asburgica. Il governo delle Province Illiriche, di cui Trieste entra a far parte, è un eterogeneo sommarsi di cantoni tirolesi, province istriane ex austriache ed ex venete, territori croati. In questo senso esse rappresentano, senza dubbio, una delle creazioni più effimere nel variegato universo dei rimaneggiamenti territoriali voluti da Napoleone.

Il carattere dichiaratamente militare o, più esattamente, diplomatico-militare delle province – dal momento che Napoleone vede in quei territori ora un antemurale da conservare contro Vienna, ora una pedina di scambio per ottenere la Galizia in vista della ricostituzione della Polonia –, non favorisce certo processi di stabilizzazione politica ed economica.

Né ad essi contribuisce l’attività di governo svolta da Marmont, il primo governatore di questo territorio, diviso tra il desiderio di un pronto ritorno a Parigi e il progetto di costruire su questo incarico una propria, personale situazione di forza. Determinante, infine, è la scelta di Lubiana come città capitale che mortifica Trieste così nella sua identità simbolica, come nella sua condizione economica.

Per Trieste napoleonica ci sono, dunque, tutti gli elementi per parlare di un decadimento, che la riduzione della popolazione, passata tra il 1808 e il 1812 da 33mila a 26mila abitanti, segnala con chiarezza. Tuttavia, per una più esatta comprensione di ciò che accade in quel periodo e, soprattutto, di quanto esso, nella sua brevità, finisce con l’incidere su processi di lunga durata, è, forse, meglio parlare di un tentativo di metamorfosi, di un riorientamento. Questo processo si determina in primo luogo nella vita economica. Via via che il blocco continentale determina i suoi effetti, vengono significativamente a mutare le correnti di traffico del commercio triestino. All’inevitabile deperimento delle vie verso il Mediterraneo orientale da un lato e l’Europa centrale dall’altro che avevano fatto la fortuna del suo porto franco, corrisponde lo sviluppo di direttrici che guardano verso l’Europa occidentale: la Francia imperiale come è ovvio, e con essa l’Italia.

Esemplare è in questo senso la nascita dell’Entrepôt fictif per lo smercio, in particolar modo, del cotone che nasce nel 1811 con il disegno di fare, appunto, di Trieste un punto di passaggio nevralgico tra lo spazio mediterraneo (soprattutto il Levante mediterraneo), l’Italia e l’Europa francese e che mostra l’obiettivo di riarticolare in maniera differente, di riorientare – come prima si accennava – una posizione e una vocazione strategica ormai consolidatasi nella storia economica della città.

Un’osservazione non molto diversa si può fare a proposito della organizzazione politico-amministrativa che, sempre nel 1811, con il decreto emanato alle Tuileries nell’aprile, prova a riconfigurare il governo del territorio secondo il modello napoleonico.

Niente di nuovo, si potrebbe pensare da un certo punto di vista, per una città che nei decenni del riformismo asburgico aveva conosciuto un preciso assetto della sua vita amministrativa e istituzionale. Molto di nuovo, bisogna invece aggiungere, non guardando tanto alla brevità cronologica di questo modellamento napoleonico e tanto meno immaginando di dover stabilire comparazioni sempre discutibili di modelli. Il punto è che, così sul terreno della vita economica come su quello della riarticolazione del governo locale, gli anni napoleonici producevano lo stesso effetto: il raccordo con la vicenda storica italiana diventava non solo un dato, per dir così, complementare della tradizione intellettuale cittadina, ma un elemento della concreta sua esistenza materiale, si starebbe per dire quotidiana.

La nascita, già nel 1810, del “Gabinetto della Minerva”, istituzione destinata ad occupare una parte rilevantissima nella vita culturale di Trieste, per un verso fissava questo decisivo momento di passaggio e, per altro verso, provava già a dare forma culturale, appunto, ad un processo storico che veniva determinandosi intorno a sé.

Se questo accadeva, non deve, tuttavia, pensarsi ad un impoverimento dei caratteri di fondo della città quali si erano stabiliti in quel golden age della sua storia che è il Settecento asburgico. Ampliando le mappe della propria esperienza collettiva, come fatalmente era avvenuto dal momento in cui, come tante altre realtà europee, anche essa aveva finito con il far parte della travolgente epopea napoleonica, Trieste ne usciva arricchita e rafforzata nei suoi stessi tratti caratteristici.

La modernità – che non poteva in quel momento che essere anche modernità disordinata e incoerente di una rivoluzione esportata – aveva afferrato Trieste e non l’avrebbe più abbandonata, nemmeno (anzi sarebbe meglio dire tanto meno) quando, già nel 1813, la crisi incipiente e irreversibile della potenza napoleonica la restituisce alla casa d’Austria.

Accogliendo, negli anni successivi, un esulato politico singolare, che vanta i nomi di Maria Carolina vedova di Gioacchino Murat e del terribile Fouché, ospitando un “sopravvissuto” dalla intelligenza elegante come Henri Beyle detto Stendhal, Trieste confermava il suo carattere di città colta e tollerante che – è vero – aveva radici più profonde dell’effimera folata di vento napoleonico. Ma accogliendo quei relitti di un tempo rapidamente trascorso essa, in qualche modo, rendeva loro l’omaggio di chi, mentre offriva rifugio, sapeva che molto ad essi, al loro mondo finito, era debitrice.

Luigi Mascilli Migliorini 

 

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