I Napoleonidi nelle nostre terre
Alla morte di Giuseppe II, gli successe (1790) il fratello Leopoldo II, nono figlio di Maria Teresa, secondo in discendenza maschile dopo la morte precoce di Carlo Giuseppe. Salito al trono degli stati ereditari ed a quello dell’impero confermò le doti già dimostrate nel governo del granducato di Toscana: i suoi interventi furono rapidi ed incisivi, riportò ordine e coerenza nello stato, ristabilì la coesione tra le nazionalità, in breve tutto l’impero rifiorì. Il nuovo sovrano, fors’anche per la grande esperienza acquisita in Italia, seppe affrontare il problema di Trieste con particolare sensibilità: ridata alla città quella libertà culturale di cui aveva sempre goduto, riprese i precetti materni in economia e innovò in politica ritornando, più nella forma che nella sostanza, all’antico; molto s’è detto del perché volle ridare dignità al consiglio comunale rimarcandone il carattere autonomistico e sottolineando che il governatore imperiale della città, naturale interlocutore del consiglio, era nominato da lui e solo a lui doveva far riferimento nel suo mandato. Senza enfatizzarne le capacità, è agevole riconoscere, fors’anche aiutati dal senno di poi, che alcuni segnali molto significativi erano presenti in città.
Tra i cittadini di maggior spicco intellettuale serpeggiavano fermenti molto più avanzati del legalitarismo asburgico; idee democratiche erano dibattute ed una loggia massonica era notoriamente aperta; i primi passi della rivoluzione francese non furono malvisti da tutti, anzi. Qual migliore aggancio, a tutela delle legittimità regale, del ritorno formale ai fasti del libero comune, con la figura dell’imperatore a tutela della libertà stessa? Gli eventi successivi della rivoluzione – terrore, direttorio e Napoleone Bonaparte – si incaricarono di dissipare queste preoccupazioni: molte simpatie rientrarono.
All’improvvisa morte di Leopoldo II (1792), l’Europa era già stretta nelle spire della paura per i fatti di Francia: anche Vienna ne risentì, non erano tempi per innovazioni ma per un’oculata attesa dell’evolversi degli eventi.
Trieste, città giovane, era pervasa dal desiderio di vivere e le preoccupazioni delle cancellerie non arrivavano a intaccarne l’ottimismo: continuava a lavorare, a intrecciare rapporti commerciali.
La città avvertì l’approssimarsi di una situazione di pericolo più da quella che fu una vera e propria fuga degli operatori finanziari ed economici (fine 1796) che non da precise notizie; eppure la campagna d’Italia era ben avviata. Nel marzo del successivo 1797 le truppe di Napoleone erano già in marcia: il 14 a Sacile, il 16 a Pordenone, il 18 a Palmanova, il 19 a Gradisca, il 21 a Gorizia, il 23 a Trieste; fu un’occupazione incruenta, breve ma onerosa: alla città fu imposta una contribuzione di guerra di tre milioni di lire (poi ridatta a 2.600.000) da pagarsi in denaro e merci. Di Napoleone in città si disse: «Si è fermato a Trieste lo stretto necessario per prendersi la cassa comunale e ripartire». La firma del Trattato di Campoformido (17 ottobre 1797) sanzionò la fine della Repubblica Veneta: Istria, Dalmazia e Veneto furono assegnati all’Austria e Trieste venne così a trovarsi nella posizione di erede di quel mare che Venezia le aveva limitato per secoli.
Ma, come si sa, questa trattato fu solo un armistizio e Trieste non poté ottenere grandi benefici anche se si ebbe una lieve ripresa interrotta solamente dalla seconda breve occupazione francese (fine 1805-marzo 1806). A noi – che abbiamo vissuto di persona, o nelle rievocazioni dei genitori e nonni, le guerre totali del XX secolo – dà un senso di stupore sentir ricordare le realizzazioni di opere civili, i commerci e le dispute politiche di un periodo tanto movimentato da eventi bellici quale fu quello napoleonico; eppure – in quest’epoca che sentiamo così vicina – le guerre le combattevano ancora solamente i soldati e la vita d’ogni giorno scorreva secondo consuetudine.
L’autonomia locale fu praticamente del tutto compromessa dal nuovo assetto territoriale ed i governanti austriaci cominciarono a trattare Trieste come il nuovo centro di una provincia burocraticamente inserita nell’apparato statale.
I malumori in città furono manifesti, anche se le condizioni generali non dovevano essere troppo insoddisfacenti: basti pensare alla costruzione del teatro e del palazzo della Borsa; ne trassero partito i simpatizzanti per la Francia e le nuove idee, di cui essa era comunque portatrice, che eccitarono le proteste.
Delusione di ogni aspettativa, una grave crisi economica e tramonto d’ogni sogno di autonomia tradizionale caratterizzò la terza occupazione francese (1809-1813).
L’ordinamento accentratore napoleonico fu realizzato anche nelle neocostituite Province Illiriche: Trieste fu elevata a capoluogo della provincia istriana e del Friuli già austriaco, ma la città non ne ricavò beneficio alcuno; il blocco continentale decretato contro l’Inghilterra ed il sostanziale disinteresse francese per l’economia triestina fecero il resto. Ciò ci fa intendere chiaramente perché il 13 ottobre del 1813, al suo ritorno, l’Austria fu accolta dai più come liberatrice; ma non era più l’Austria delle autonomie bensì quella della restaurazione; uno stato ordinato, basato sulla certezza del diritto che lasciava libera circolazione a uomini, beni e idee ma non defletteva quanto a libertà politiche: l’aspirazione ad autogovernarsi rimase un sogno. E questo sogno coltivò e propugnò per tutta la sua vita Domenico Rossetti: una figura emblematica che tanto incise con gli scritti, la parola e le opere nelle coscienze più illuminate e attente; bisogna rifarsi a lui per comprendere tanti aspetti della Trieste moderna.
La restituzione della zona franca (1814) e la ripresa industriale e commerciale negli stati dell’impero impressero uno slancio decisivo allo sviluppo della città che durò, praticamente ininterrotto, per un secolo; tutti i ceti ne furono coinvolti e tutti ne trassero beneficio. Questo non ci deve far credere che la città sia stata del tutto sorda al richiamo della cultura: essa veniva coltivata in ristretti circoli, quali la Società di Minerva (costituita dal Rossetti nel 1810), su molti giornali e nei salotti. Di questi s’è detto sempre poco o punto anche se furono molto più incisivi di tanti aspetti più appariscenti della vita cittadina. Infatti, per le franchige mai revocate offerte a chiunque volesse stabilirvisi, Trieste vide il confluire di alcune famiglie regnanti in esilio che qui trovarono felice soggiorno e qui portarono il fasto principesco e l’alta cultura che si accompagnano sempre alle corti.
Ricorderemo le Mesdames de France, i Borboni Anjou di Carlo V e i Napoleonidi.
Soprattutto la presenza di questi ultimi contribuì ad elevare il tono della cultura e diede vita a salotti letterari cui seguirono tanti altri in città. Si stabilì così un circuito d’idee cosmopolite che influenzò il pensiero e l’azione dei cittadini più rappresentativi: quella seconda e terza generazione di operatori che, paga del suo benessere, sentiva il desiderio di nobilitare il vivere quotidiano con interessi e valori spirituali. Non è dato quantificare quale fu l’interscambio culturale con i ceti della borsa mercantile, certo è che in questa istituzione – da un secolo cuore degli affari e centro propulsore della vita della città – circolarono idee e propositi di un liberalismo cosmopolita pari ai più avanzati d’Europa: non certamente rivoluzionari, come quelli coltivati dalle sette carbonare della massoneria d’altre contrade d’Italia, ma molto innovatori sì. Comunque il collegamento con tutti i movimenti liberali italiani fu costante; se oggi ci appare poco documentato ciò è dovuto alla segretezza che l’onnipresente polizia consigliava…
Laura Ruaro Loseri