L'esilio dei Napoleonidi

1814-1815

Girolamo ed Elisa Bonaparte arrivano a Trieste nella notte tra il 6 e il 7 agosto 1814 e si fermano alla Locanda Grande. Il mattino seguente Girolamo, in uniforme da generale, fa una passeggiata sulle Rive completamente circondato dalla folla, poiché si è sparsa la voce del suo arrivo. Nel corso della giornata riceve la visita di Joseph Labrosse e della sua famiglia e poi si reca nel suo magazzino per effettuarvi alcuni acquisti di merci inglesi. La sera è a teatro, accompagnato dal direttore di polizia Cattanei, e l’8, alle cinque della sera, prende la via della penisola.

Ma ecco che all’alba del giorno seguente, quando Elisa e Girolamo si trovano sulla strada per Udine, a quattro ore da Palmanova, la granduchessa di Toscana ha le prime doglie. “Figurarsi l’imbarazzo di mio marito” (scrive Caterina nel suo diario l’11 agosto, quando riceve la notizia). Finalmente, come per incanto appare un castello: il re si decide, si fa annunciare, viene ricevuto benissimo ed eccolo installato lì. Il castello è quello di Passariano, dove si era stabilito Napoleone durante i preparativi del Trattato di Campoformido. Girolamo non riprende il viaggio interrotto perché nel frattempo Metternich gli ha notificato il rifiuto di lasciarlo continuare verso l’Italia. Il 15 agosto il re senza trono è di ritorno alla Locanda Grande. Il 20 lo raggiunge qui Caterina. L’esilio triestino dei Napoleonidi è iniziato.

Il ritorno dell’Austria nel 1814 porta con sé una nuova ondata di esuli. Fra di essi Girolamo Bonaparte, già re di Westfalia, che ricambia l’ospitalità concessagli da Metternich fuggendo ad Ancona durante i Cento giorni (1815). Avventura effimera: colui che è fuggito come conte de Harz, ritorna sotto le spoglie di principe di Montfort, per condurre una vita tranquilla (sotto la benevola sorveglianza della polizia) nella sua villa tergestina. La città vedrà quindi per una decina d’anni l’esistenza di due piccoli corti in esilio, ché alla famiglia di Girolamo si aggiungeranno Carolina vedova Murat, Elisa e il marito principe Baciocchi, oltre a numerosi ex ministri e funzionari napoleonici, primo fra tutti Fouché.

Trieste gioca un ruolo importante nell’accoglienza dei numerosi membri della famiglia Bonaparte in esilio ma anche nell’infanzia e l’adolescenza dei figli di Girolamo Bonaparte, eredi del nome imperiale, che sin dagli anni Cinquanta dell’Ottocento saranno poi richiamati a Parigi per vivere accanto al cugino Napoleone III l’avventura del Secondo Impero. Il principe Girolamo Napoleone sposerà nel 1859 la principessa di Savoia Maria Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II, e il matrimonio rinforzerà il patto d’alleanza tra il Piemonte e la Francia conclusosi con l’intervento francese a fianco dell’Italia nelle guerre anti-austriache del Risorgimento. 

Il 12 marzo 1815 giunge a Trieste la notizia dello sbarco nel golfo Juan di Napoleone, di ritorno dall'isola d'Elba - avvenuto il 1° marzo - e il Governo di Vienna decide di trasferire Girolamo nell’Austria interna, essendo la sua residenza adriatica troppo vicina all’Italia. Ha fatto i conti senza l’oste. L’ex re di Vestfalia, comprendendo che non può più essere rimandato il momento di tentare la sorte, trova in Abbatucci un complice efficiente e irresponsabile. I Mémoires di de Moré ci hanno lasciato la descrizione dell’inghippo che permette l’evasione. Si sparge la voce che Girolamo è stato colto da uno di quei mal di pancia ai quali è soggetto. Si corre in farmacia. Viene preparato un consulto. Quando il medico si presenta Caterina lo manda via. Suo marito riposa, non bisogna disturbare il suo sonno. Girolamo riposa così bene che la vigilia, la sera del 24 marzo 1815, ha preso il largo su una paranza messagli a disposizione dal console di Napoli e sottratta all’ispezione. Alcuni marinai sono infatti entrati a Palazzo Romano e ne sono usciti poco dopo; non gli stessi marinai, bensì le stesse uniformi sotto le quali si nascondono i fuggitivi e i loro compagni.

Il direttore di polizia non ne fa uno scandalo, ma i suoi sottoposti manifestano il loro cattivo umore con alcuni scherzi di cattivo gusto di cui è fatta oggetto Caterina che, ribelle alle sollecitazioni del Governo austriaco, lascia la città solo nel momento che sceglie lei (3 aprile 1815).

Quanto a Girolamo, dopo un viaggio disseminato di incidenti, egli raggiunge la costa occidentale dell’Adriatico e caso vuole che incontri suo cognato, Gioacchino Murat, che risale da Ancona a Pesaro.

Non ricordiamo qui come il re di Napoli, perduto il senso di ciò che doveva a se stesso, a Napoleone e alla Francia, sognasse un’Italia unificata sotto il suo scettro. Il 3 maggio a Tolentino, le sue speranze svaniscono. Vinto, disperato, il 18 ritorna a Napoli, che lascia la notte seguente d nascosto.

Riscattando con il suo coraggio gli orgogliosi cedimenti del suo patriottismo e della sua lealtà nei confronti dell’Imperatore, la reggente Carolina Murat tiene invano testa al temporale. Anche per lei è suonata l’ora dell’esilio. La Convenzione che ha firmato con il commodoro Campbell, che comanda la squadra inglese nel golfo di Napoli, non le permette di tornare in Patria, il rientro nella quale le viene rifiutato dai suoi nemici; “credendo di potersi fidare della lealtà dell’imperatore d’Austria più che di quella di tutti gli altri sovrani, domandò di essere portata a Trieste”.

Meno di vent’anni dopo che la regina del Portogallo aveva depositato le figlie di Luigi XV sulle rive dell’Adriatico, una sorella di Napoleone viene trasportata sul Tremendous. Ma il suo viaggio non è impregnato di quella tragica disperazione che avevano conosciuto le principesse e la loro piccola corte di emigrati. Accompagnata dai figlioletti, per i quali la traversata è una festa, circondata da sguardi (d’ammirazione) sulla nave inglese, ricevuta in Austria con gli onori dovuti a un sovrano, Carolina può sperare che Metternich, che le era rimasto appassionatamente fedele, le avrebbe addolcito il rigore del destino.

Palazzo Romano, che non aspetta più Girolamo, apre le sue porte alla Regina di Napoli e la polizia austriaca si vede, con dispiacere, minacciata di ricominciare a fare una guardia difficile e forse infruttuosa a una casa la cui sorveglianza le aveva causato tanti crudeli scacchi.

Poiché l’aria di mare non le si confà, non approfitta della facoltà datale di restare a Trieste e, poiché la Francia le è ormai vietata, il 14 agosto parte. Viaggiando col nome di duchessa di Lipona arriva a Hainburg, sulla strada Vienna-Presburgo, dove la raggiunge la notizia della morte di Murat, fucilato il 13 ottobre a Pizzo Calabro.

Per Girolamo, Elisa e Carolina Trieste al tempo dei Cento giorni non è che la breve tappa di un’esistenza agiata. Come avrebbero potuto prevedere che il destino ve li avrebbe riportati? Eppure si avvicina il tempo in cui gli Asburgo che hanno accolto due principesse esiliate della più antica monarchia d’Europa, offrono ospitalità ai proscritti della dinastia usurpatrice. Ai fiori di giglio sta per succedere l’ape.

 

1816-1823

Il secondo capitolo della storia dei Napoleonidi a Trieste si apre con l’arrivo di Elisa nel 1816 e si chiude nel 1823 con la partenza di Girolamo che vi si era stabilito di nuovo qualche settimana dopo la granduchessa di Toscana. Nel frattempo la morte dell’imperatore, il 5 maggio 1821, è venuta a togliere qualunque importanza politica alla famiglia Bonaparte.

Allo stesso modo non è solo al soggiorno della sorella e del fratello più piccolo di Napoleone che i primi anni di questo periodo devono il loro interesse, ma anche alla presenza dei proscritti che, essendosi visti assegnare Gorizia come luogo di esilio - quella Gorizia che accoglierà Carlo X dopo gli uomini dell’Impero come Trieste ha accolto i Napoleonidi dopo le figlie di Luigi XV -, tenteranno di raggiungere le rive dell’Adriatico, dove li raggiungerà un personaggio illustre: Joseph Fouché, duca d’Otranto.

Elisa Baciocchi l'abbiamo vista a Trieste nel 1814, cognata attenta che assiste come una madre Caterina di Wüttemberg durante il primo parto, a Palazzo Romano. Impara così a conoscere Trieste che certo apprezza, dal momento che la vediamo chiedere insistentemente di tornarvi quando le autorità austriache, in seguito a una denuncia calunniosa, la strappano da Bologna dove conduce una vita allo stesso tempo comoda e inoffensiva (aprile 1815).

Internata a Brno con Felice Baciocchi e sua figlia Napoleona, ottiene - dopo aver a lungo e invano reclamato l’autorizzazione a lasciare la Boemia, della quale soffriva il clima rigido - di fissare la sua residenza a Trieste. “Farete – scriveva Metternich il 5 marzo 1816 – cosa gradita all’imperatore se vi stabiliste lì con il cognome della vostra famiglia e con gli stemmi che avete portato finora”.

Essa non riprese il cognome di famiglia come era stata esortata (scrive Masson) ma il titolo di contessa di Compignano (dal nome di una delle sue proprietà lucchesi) e lo fece senza discutere. Fu la sola dei Napoleonidi a sapersi adattare alle circostanze e, caduta da una specie di trono, a essere abbastanza forte per godere ancora la vita e le bellezze che questa offriva, e a trarre vantaggio dai relitti, del resto molto belli, che aveva salvato. Certamente le era costato tanto, e anche più di chiunque altro, non regnare più, non ostentare il piacere di governare, condurre ed educare gli uomini, ma in mancanza di uno Stato ebbe le sue proprietà, in mancanza di sudditi suo marito, sua figlia, i cortigiani e i domestici, e se ne accontentò”.

Si era sistemata in una villa – la futura villa Murat – costruita, come quella che diventerà villa Necker, dall’architetto francese Champion alla fine del Settecento.

Edificata sul versante del promontorio che domina l’Adriatico tra il golfo e la baia di Muggia per il generale russo Psarò – in verità un greco al servizio dello zar – villa Murat era passata nel 1798 a Fra Ferdinand, barone di Hompesch, gran Maestro dell’Ordine di Malta, spossessato da Bonaparte all’epoca dell’occupazione dell’isola. Dopo Elisa vi abiterà per quasi dieci anni Carolina Murat.

Vi sono una cappella privata e una biblioteca, entrambe affidate a un emigrato, don de Sivry, professore di poesia al tempo della dominazione imperiale, che fa parte della casa dell’ex sovrana. La riapertura della cappella, privilegio al quale lei tiene molto, tanto più che rappresenta le ultime vestigia della sua esistenza principesca, è ottenuta grazie alla mediazione del cardinale Fesh presso la Santa Sede. Lo stile Impero è evidente nella decorazione degli appartamenti, nei quali dovunque ci sono ricordi che evocano il tempo delle scomparse grandezze: ritratti di famiglia e ventidue pannelli che presentano gli uomini ilustri della Toscana.

Dal giorno del suo arrivo, Elisa vive molto appartata, ma la incontrano ben presto quasi tutti i giorni in carrozza e a volte mentre attraversa la città a cavallo.

Il marito è qui (leggiamo qualche giorno più tardi) e, come ovunque del resto, non se ne parla affatto, e la sua ordinaria compagnia è composta dal generale Arrighi, dalla moglie e da un certo Rossi, ex colonnello”.

Appassionata di teatro – non ha forse mantenuto a Firenze una compagnia francese che recita alternativamente con quella italiana – frequenta la stagione dell’opera. Ma, com’è uso in Italia, i palchi sono affittati per tutto l’anno. È necessario l'intervento della polizia affinché gliene venga ceduto quello di un “negoziante che gli affari tengono lontano da Trieste per molti mesi”.

Ora va spesso agli spettacoli (scrive Berteux il 1° ottobre 1816) e la signora Arrighi, che non era ancora stata vista con lei, si trova spesso nello stesso palco. Quest’ultima, per la dolcezza della fisionomia e la sua aria sofferente, qui ha ispirato molto interesse in parecchi”.

Man mano che il suo soggiorno si prolunga la polizia allenta la stretta, pur non cessando di restare fastidiosa. È così che nel corso dell’inverno 1818-1819 Elisa, non contenta di un palco, ne chiede con insistenza un altro. Glielo rifiutano. Lei fa il broncio e si ritira a Villa Vicentina. Deve distrarsi a qualunque costo. Le succede persino di frequentare i bagni pubblici.

Caprin parla di un teatrino che ha fatto costruire e sulla cui scena sono eseguite alcune commedie, danze e perfino operette, specialmente l’Adelina del maestro Generali, che viene replicata più volte. Ama lo spettacolo, la musica, gli artisti.

Questi divertimenti ricordano a Elisa i bei giorni di Firenze. Da quando, subito dopo Waterloo, la famiglia si è dispersa, è la sola a essere tornata a Trieste. Ed ecco che, quasi tre anni e mezzo dopo di lei, vi ricompare Girolamo.

Diventato principe di Montfort per gentile concessione di suo suocero, accolto per la seconda volta in Austria, è andato di città in città. Ma Caterina, che aspetta un bambino e mal sopporta i rigori dell’Europa centrale, sollecita l’imperatore Francesco, suo zio, per un’autorizzazione a stabilirsi, per il parto, in un clima più dolce. L’ottiene il 7 novembre 1819 e, il 10 dicembre, essi si ricongiungono a Baciocchi.

La polizia austriaca, che era stata presa per il naso da Girolamo, e alla quale Caterina aveva tentato di sottrarsi, non può vedere di buon occhio il ritorno di questi indesiderabili. Prende dunque misure “colossali per impedire una seconda evasione e le autorità locali raddoppiarono il loro zelo, non fosse altro che per vendicarsi di essersi lasciate prendere in giro cinque anni prima“.

La real famiglia si è trovata bene a Palazzo Romano, e ci si reinsedia. Fin dal 15 marzo Caterina ha scritto a re Giuseppe (Bonaparte): “Girolamo ha fatto acquisto di una superba casa che ha vista sul golfo e che è attorniata da pergolati di viti come le belle campagne che circondano Napoli. Lieti di veder quasi sempre il sole e di vivere in un’atmosfera più dolce, noi non formuliamo che un voto, quello di poter definitivamente fissarvi domicilio”.

Tranquillità turbata tuttavia da continui problemi di denaro, perché Girolamo è uno spendaccione e, da questo punto di vista, Caterina non ha niente da invidiare al marito perché per lei, nata principessa, la semplicità è una maniera di vivere meschina.

Due dei Bonaparte hanno ripreso le loro abitudini di vita a Trieste, e la città si accinge ad accogliere un altro redivivo: Fouché. Girolamo, che non ha dimenticato quanto gli deve, l’ha spinto a tornare qui, assicurandolo che si sarebbe fatto di tutto per procurargli un soggiorno confortevole. Elisa, che è andata a Carlsbd per passare le acque, al ritorno si è fermata a Linz (18 agosto 1818) per persuaderlo. Egli le scrive il 28 settembre che non “ha desiderato niente di meglio, sotto il profilo climatico, del sole di Trieste. Ma se la luce basta a scaldare il corpo, ci vuole ben altro per lo spirito”. Detto questo, si informa delle possibilità scolastiche “in fatto di lingue, musica e disegno”. “Il resto è affar mio (aggiunge, e qui vediamo riapparire il vecchio insegnante dell’Oratoire) perché dopo aver lasciato il Ministero mi sono messo a insegnare quel che ho imparato”.

Il 3 gennaio 1820 l’ex governatore generale dell’Illiria si ritrova nel suo antico feudo. Vi arriva accompagnato da una giovane moglie e da quattro figli. Rimasto vedovo, l’8 marzo 1812 di Bonne Jeanne Coiquad la compagna dei giorni difficili, ha sposato il 1° agosto 1815, con la protezione di Luigi XVIII, Ernestine de Castellane-Majastre, ereditiera di un nome famoso, nata ad Aix-en-Provence il 5 luglio 1788. Ha dunque 27 anni quando nella chiesa dell’Abbaye aux Bois, a mezzanotte, viene celebrato il matrimonio. Lui ne ha 56. Il vecchio innamorato, più felice dei vecchioni di Molière dai quali non è poi così diverso, ha incontrato il pieno consenso della bella aristocratica approvata dal Faubourg-Saint Germain, e i giorni cruciali che sono seguiti, l’esilio, nonostante le calunnie dei Thibeau-deau, non l’hanno allontanata da un marito poco affascinante. Ella regnerà tranquillamente su Palazzo Vicco in via Cavana, non lontano dal rifugio dove si è stabilito l’ex ministro…

Abbiamo già sottolineato la passione di Elisa per le feste; non è da meno Girolamo, presso il quale si succedono i pranzi, i concerti e i balli. Caterina stima la duchessa d’Otranto e l’ex re di Vestfalia si compiace di intrattenersi con Fouché che, stando alle parole di Masson, “non era un disprezzabile conversatore”.

La famiglia è diventata così intima dei Montfort che quando il 27 marzo 1820 nasce la principessa Matilde, battezzata durante la notte, Baciocchi e Fouché ne sono i padrini. “Elisa stuzzica il duca d’Otranto sul grande amore ch’egli ha per lei”. I figli fanno con quelli di Fouché grandi giri del golfo su una gondola che questi si è fatto costruire.

Questo periodo di euforia finirà presto. Il 16 aprile Elisa parte per il Friuli e, il 12 luglio, contro il parere dei medici, va alle terme di Monfalcone. Lì viene colta dalle febbri malariche. Curata male – il chinino avrebbe potuto salvarla – si spegne i 7 agosto dopo tredici giorni di malattia. È la prima Bonaparte che scompare e ha appena 43 anni. Felice Baciocchi, i Montfort e la famiglia Fouché “le prestarono, al capezzale di morte, cure affettuose”. Quando scopre di essere rimasta orfana la futura contessa Camerata, che ha allora 14 anni, per due volte tenta di buttarsi dalla finestra di Campo Marzio.

La salma di Elisa è riportata a Trieste dove, il 6 settembre, hano luogo le esequie.

I funerali della contessa di Compignano (scrive La Rue) hanno avuto luogo oggi alle 10 del mattino nella cattedrale di San Giusto; 1500 metri di tela bianca e nera sono stati impiegati per tappezzare i muri e le colonne della chiesa. L’architettura del catafalco che rappresentava la tomba era coperta di velluto nuovo nero ornato di ghirlande; c’erano 160 torce, 60 delle quali di prima grandezza… Dicono che per questa cerimonia siano stati spesi dodicimila franchi; il conte de Montfort non vi assistito”. Fouché, in tenuta da città, semplicemente con un crespo nero al braccio sinistro, sta a fianco di Baciocchi; il Consolato di Francia è rappresentato da Chevalier.

Deposta provvisoriamente nella cappella della villa, la salma di Elisa è trasportata – come il sontuoso monumento che le viene eretto – a Bologna il 13 febbraio 1826, quando Baciocchi vi si stabilisce definitivamente. Le relazioni con il cognato non sono sopravvissute alla morte della moglie. Un anno dopo Caterina scrive a Giuseppe Bonaparte: “Residenti nella stessa città, viviamo insieme come se fossimo a mille leghe gli uni dagli altri. Le nostre famiglie non comunicano più tra loro”.

Una nascita: quella della principessa Matilde che, non avendo potuto sedere sul trono delle Tuileries, regnerà su un celebre salotto del Secondo Impero; una morte, quella della maggiore delle sorelle di Napoleone. Caterina vive nello stupore del figlio neonato. Girolamo, con l’anima sempre in ebollizione, sogna di diventare costruttore navale: non ha forse noleggiato per due ore il battello a vapore che è stato per quelli della Restaurazione la novità che sarà per gli uomini di fine secolo?

Così si presentano i nostri esuli nella primavera-estate del 1820. A Palazzo Vicco, vita semplice  e poche amicizie; “la duchessa e la nuora passano parte del loro tempo in tranquilli lavori di ricamo, lezioni di musica e di italiano”. Il Boschetto di Nodier, che l’esule vanta a sua volta, offre le sue passeggiate, il Carso le sue gite. Thibeaudeau ha già notato da Fouché “abitudini semplici, bonomia, familiarità, quasi dei modi patriarcali”.

Quattro mesi dopo Elisa Baciocchi, il 26 dicembre 1820 alle tre e un quarto del mattino, Fouché si spegne a sua volta. Sebbene fosse di costituzione delicata e l’inverno particolarmente rigido, non ha rinunciato a quelle passeggiate “che da un anno faceva spesso, senza dubbio a tu per tu con molti ricordi e strani pensieri”. Il 15, avendo preso freddo, gli viene una pleurite. È subito chiaro che non ci sono speranze di salvezza e viene mandato a chiamare in tutta fretta il figlio maggiore, Joseph, che si trova a Vienna.

La vigilia di Natale inizia l’agonia. Sentendo sopraggiungere la fine, Fouché incarica il figlio Armand di distruggere qualsiasi documento “residuato compromettente per lui e per gli altri del suo straordinario passato”.  Il 25 arriva il figlio maggiore, il conte d’Otranto, che sviene nell’apprendere che la morte del padre è prossima.

A partire dalle 4 del pomeriggio, mentre cadeva la neve e i refoli di bora spazzavano via Cavana, su suggerimento del medico nessuno entrò più nella stanza, ad eccezione di Monnier, il suo domestico, che è stato il solo presente quando esalò l’ultimo respiro”.

Ha ricevuto gli ultimi sacramenti. Conversione sincera o conformismo? Una delicatezza nei confronti della nuova moglie? Il 13 maggio ha scritto ancora a Elisa, che si trova a Villa Vicentina, una lettera dove torna a essere l’uomo di una volta, ma tradizione vuole che andasse spesso a inginocchiarsi a Sant’Antonio Vecchio, la chiesa a fianco di Palazzo Vicco, e che a volte salisse fino a San Giusto. Una doppia faccia che avrebbe conservato fino alla fine.

Le sue spoglie sono esposte per tutto il giorno seguente. Il 28 hanno luogo le esequie solenni. Per molto tempo si è creduto, in virtù del memorialista Giuseppe Caprin, che il carro funebre fosse stato rovesciato dalla bora: la leggenda ben si accorda con il personaggio, ma oggi risulta inventata di sana pianta. La bara è deposta in una delle cripte di San Giusto, dove sarebbe rimasta per cinquantatre anni.

Scomparso Fouché, Girolamo resta a Trieste l’ultimo “bandito”, come si diceva ai tempi di Dante. Vi resta ancora per poco più di due anni. Nel frattempo la morte di Napoleone, resa nota in città il 17 luglio 1821, ha fatto di lui un privato cittadino. Il 21 novembre 1822 ottiene dal Congresso di Verona di raggiungere la madre e la sorella, Paolina Borghese, a Roma, dove arriva il 26 maggio 1823.

L’ultima parte del suo soggiorno triestino è contrassegnata dalla nascita (il 9 settembre 1822) di colui che sarà il principe Napoleone del Secondo Impero. Che per lui sia passata l’età delle scappatelle? Ha ritrovato la bella Rosa Pinotti, l’attrice conosciuta nel 1815: “La fedele Caterina (scrive de Incontrera) tollerò senza aprir bocca l’amante del marito sotto il tetto coniugale; la sua indulgenza e la sua docilità erano pari all’amore che tutto dava e niente chiedeva di quest’autentica figlia di re per il suo Joyeux Jerome. Questi la colmava di carezze e di attenzioni di ogni genere e la sua charmante Trinette gli era tanto grata che dimenticava di essere gelosa ed anzi trovava in lui tutto ammirevole, compresi i figli che gli davano altre donne”.

Costretta ad abbandonare Hainburg, dove si era ritirata all’indomani di Pizzo Calabro, Carolina Murat acquista nel maggio del 1817 il castello di Frohsdorf, destinato alle dinastie decadute dal momento che più tardi accoglierà il conte de Chambord. Avendo chiesto insistentemente di poter passare un po’ di tempo a Venezia per recuperare la salute compromessa, si ferma il 30 luglio 1823 a Trieste, dove ha già fatto delle brevi apparizioni nel 1816 e nel 1820, e scende alla Locanda Grande. Poi si reca, invitata da Baciocchi, a Villa Vicentina. Quattro mesi dopo che Girolamo è andato a Roma, Carolina assicura la sostituzione dei Bonaparte (che diventerà effettiva solo il 19 maggio 1824), dal momento che Metternich l'ha autorizzato ad attendere a Trieste la decisione della Conferenza ministeriale di Parigi relativa alla sua definitiva sistemazione. Dopo lunghi negoziati ciò avviene il 24 maggio 1826.

La Rivoluzione di luglio, mandando al potere uomini che non le sono affatto ostili, non può non incoraggiare Carolina Murat a tentare di lasciare Trieste. Scrive a Metternich che “stanca per il clima incostante, debilitata da una grave malattia e allarmata per l’avvicinarsi del colera”, sollecita l’autorizzazione a stabilirsi a Firenze.

Sebbene desideroso di accontentarla, il cancelliere invoca, in una lettera che è un modello di tatto e delicatezza, l’impossibilità in cui si trova di “derogare da solo alle decisioni del 1815 riguardo ai membri della sua famiglia, e tanto meno perché dopo la rivoluzione del 1830 il nuovo Governo francese aveva chiesto che questi accomodamenti fossero mantenuti”. Per questo propone Sigmaringen sapendo che il soggiorno in Italia o in Svizzera avrebbe incontrato un rifiuto.

Non potendo l’imperatore tornare su una decisione comune, dice Metternich, vado senza perder tempo a dare all’ambasciatore a Parigi l’ordine di sottoporre la vostra domanda alla Conferenza dei Ministri e di appoggiarla per tutti i motivi che parlino in vostro favore, nonché di sollecitare la decisione dei membri di tale assemblea”.

È passato il tempo in cui il console di Francia osservava i Napoleonidi con occhio sospettoso. Da quando è arrivato Levasseur ha annodato delle relazioni con Carolina ed è pronto a farle da intermediario presso il generale Sebastiani, conte dell’Impero e ministro degli Affari esteri del novembre 1830.

Ho sempre visto in lei una persona perfettamente rassegnata alla sua sorte, che vive lontana da ogni intrigo politico e ben decisa a non occuparsene mai, che gioisce del nuovo ordine delle cose portato in Francia dalla Rivoluzione di luglio e che si augura vivamente che si conservi. È la sicurezza che ho della sincerità dei sentimenti che essa ha sovente espresso davanti a me e che vi ho appena esposto a convincermi di rendermi interprete delle sue speranze presso Vostra Eccellenza”.

Carolina si rivolge a Sebastiani con tanta fiducia, chiedendogli di intervenire presso la Conferenza dei Ministri riunita a Parigi, perchè l’inverno prima ha spedito presso di lui il generale Macdonald per interessarlo alla sua sorte.

Scartata Sigmaringen perché troppo fredda, invoca “la dolcezza del clima della Toscana, la calma politica di cui gode questo Stato, la sua lontananza dal regno di Napoli e la buona predisposizione che le dimostrava il granduca”; tutto ciò le ha fatto sperare, dice, che questa scelta non venisse respinta. Il 18 dicembre 1831 la Conferenza dei Ministri riuniti a Parigi le accorda un permesso di soggiorno temporaneo a Firenze. Carolina ne è subito informata da Metternich.

È l’ultima dei Bonaparte rimasta a Trieste. Appena tredici giorni dopo la decisione della Conferenza, il 29 gennaio 1832, Carolina se ne allontana definitivamente.

Dopodomani - scrive Levasseur - la contessa di Lipona lascia Trieste. Va prima a Bologna, dove conta di trascorrere qualche giorno da sua figlia, la marchesa di Pepoli, e da lì andrà direttamente a Firenze. È sua intenzione alternare il suo soggiorno tra questa città e Pisa“.

L’episodio triestino dell’esilio dei Napoleonidi è definitivamente chiuso.


Bibliografia

- Storia di un consolato TRIESTE E LA FRANCIA 
1702 - 1958
Autore: René Dollot (Traduzione di Marilì Cammarata) - Edizione: Istituto Giuliano di Storia, cultura e documentazione - Anno: 2003 - Pagina: 124-126, 128-131, 137-142, 146-156, 168, 205-207

Sitografia

- Francesi a Trieste
- La famiglia Bonaparte
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